Ritengo interessante provare a fare una disamina della recente, e già molto combattuta, proposta di riforma del sistema sanitario, che prevede una modifica radicale del rapporto tra i medici di base e il Servizio Sanitario Nazionale (SSN). L’idea principale alla base di questa riforma presentata da Forza Italia, è quella di trasformare i medici di famiglia in dipendenti pubblici che dovranno rispettare un orario settimanale di 38 ore, suddiviso tra assistenza diretta ai pazienti e attività di programmazione territoriale. L’obiettivo auspicato è migliorare l’accesso alle cure e garantire una presenza costante dei medici sul territorio. Ma questa nuova organizzazione sarà davvero la soluzione ai problemi della sanità territoriale? Oppure potrebbe introdurre nuove criticità?
I pro: maggiore presenza e una rete sanitaria più forte
Uno dei vantaggi principali della riforma dovrebbe essere la maggiore capillarità dell’assistenza sanitaria. Con i medici di base presenti per un numero fisso di ore, i cittadini potrebbero contare su un supporto più costante, evitando il problema degli studi chiusi o delle difficoltà nel prendere appuntamenti. Viene ipotizzata anche l’integrazione con le Case della Comunità, che potrebbe facilitare l’accesso a servizi diagnostici avanzati e ridurre il ricorso improprio al pronto soccorso.
La riforma presentata lo scorso 30 gennaio punta anche a dare più stabilità economica e lavorativa ai medici, con contratti chiari e tutele garantite. Aspetto che potrebbe rendere più attrattiva la professione, incentivando i giovani medici a scegliere la medicina generale, settore oggi in crisi per la scarsità di nuove leve.
I contro: burocrazia e rischio di minore personalizzazione
Ma l’auspicato cambiamento del rapporto tra medico e paziente solleva anche non pochi dubbi. Allo stato attuale i medici di medicina generale hanno una certa autonomia nella gestione del proprio tempo e nell’organizzazione del lavoro, cosa che non sarebbe più così con la riforma, perché dovranno attenersi a rigide disposizioni orarie, con il rischio di un servizio più impersonale e burocratico.
Anche la suddivisione del tempo tra assistenza diretta e programmazione territoriale lascia perplessi. Proviamo a fare due conti veloci. Un medico con 1.500 pazienti dedicherebbe solo 21 ore settimanali alle visite, con il resto del tempo destinato alla programmazione territoriale. Questa formula garantirà un miglior servizio o potrebbe ridurre il tempo dedicato ai pazienti, aumentando le liste d’attesa?
Le Case della Comunità: rivoluzione o complicazione?
Le Case della Comunità rappresentano un altro pilastro su cui si basa questa riforma. L’idea di avere un luogo dove trovare sia i medici di famiglia che specialisti dalle 8 alle 20 sembra una soluzione ideale per migliorare l’accesso alle cure. Ma non può sorgere il dubbio che l’obbligo per i medici di operare anche in queste strutture possa ridurre il tempo disponibile per le visite nei propri ambulatori? E soprattutto, riuscirà questo modello a coniugare efficienza e vicinanza al paziente?
La nuova formazione: una spinta alla professionalizzazione?
Un’altra novità importante riguarda la formazione. Il passaggio da un corso triennale a una specializzazione quadriennale potrebbe garantire una preparazione più solida, allineata a quella degli specialisti ospedalieri. E su questo punto sarebbe impossibile obiettare. Ma questa maggiore complessità accademica sarà un incentivo o un deterrente per i futuri medici? Non corriamo il rischio che i tempi più lunghi, unitamente alla rigidità delle nuove regole, rendano meno appetibile questa professione, già oggi non particolarmente attrattiva.
Un futuro incerto: quali saranno gli effetti reali?
Seppur animata da buone intenzioni, la riforma solleva interrogativi, e non pochi. Porterà davvero a un miglioramento dell’assistenza sanitaria o potrebbe rendere il servizio ancora più distante dalle esigenze reali dei cittadini? Il rischio è che, invece di aumentare l’accessibilità alle cure, si creino nuove rigidità, rallentando il lavoro dei medici e riducendo l’efficacia delle visite. Ma attenzione, se il sistema sarà ben organizzato e supportato da risorse adeguate, potrebbe davvero rappresentare una svolta positiva per la sanità territoriale.
Il successo, o il fallimento, di questa riforma dipenderà dall’attuazione pratica: basterà modificare il modello contrattuale per migliorare l’assistenza o serviranno ulteriori interventi? La medicina di base sta davvero andando incontro a una rivoluzione positiva o rischiamo di perdere quel rapporto di fiducia tra medico e paziente che ha sempre caratterizzato il nostro sistema sanitario? Sarà il tempo a dare le risposte, e noi saremo qui a raccontarvele.